La violenza, ma di che “genere” stiamo parlando?

il perchè delle donne

Volevo condividere con voi qualche riflessione maturata a margine dei due incontri organizzati in città, da Centro Antiviolenza MondoRosa e dall’Associazione Astarte.
Innanzitutto, ringraziare le due realtà per la loro professionalità e l’impegno che dedicano alla causa: Grazie per le emozioni, le testimonianze ed il coinvolgimento provato nel primo incontro, mentre del secondo ho apprezzato la pluralità dei contributi e le testimonianze sincere dei vari punti di vista, soprattutto delle istituzioni.
Mi è un po’ dispiaciuto notare l’assenza di colleghe tuttavia tra gli interventi organizzati. Ho un po’ paura che questo possa essere uno dei sintomi di una situazione ormai storicizzata, in cui la psicologia sta perdendo terreno, e gli spazi che le competono di diritto. Quest’assenza un po’ si è sentita, ad esempio nel primo incontro quando è parso che le tante emozioni effettivamente non avessero una rilettura, tanto da arrivare a creare un po’ di confusione, sfociati nella tensione espressa durante le conclusioni. Nel secondo invece i numerosi spunti e letture, le pluralità emerse sono rimaste un po’ sconnesse a mio avviso.
Ma non voglio parlare di questo, so che sarò un po’ lungo ma ci tengo a restituire alcune sensazioni sperando che il mio modesto contributo possa esser utile a generare confronto o pensiero costruttivo.
Vorrei prova a rispondere ad una domanda che ho sentito risuonare spesso all’interno dei vari interventi.
Nel primo incontro, una Mamma molto coscienziosamente si chiedeva se stesse facendo al meglio il proprio ruolo di educatrice, avendo un bimbo ed una bimba e riconoscendo quanto fondamentale sia il ruolo della famiglia e dell’educazione nel prevenire la violenza (di genere e non). Portava l’esempio di un piccolo screzio avuto dal piccolo nei confronti di una compagnuccia e della punizione scelta, non sapendo se avesse fatto male, o sufficientemente bene.
Non entro nel merito, non è importante per ciò che voglio dire, ma vorrei metterlo in parallelo ad una cosa emersa ricorrentemente nel secondo incontro.
Associazioni di volontariato, volontarie che sacrificano notti, feste, impegni per dedicarsi a chi è meno fortunato. Responsabili, lavoratrici, deputati, membri di commissioni comunali, regionali, che più volte hanno rimarcato il concetto di gratuità con cui si dedicano alla causa ed ai lavori necessari. La nomina delle quote rosa in consiglio, l’assenza endemica di donne elette (ma io direi più di candidate).
Vedete il parallelo? Non è importante la punizione data al bambino cattivo, o quanto si possa intervenire nelle scuole a sensibilizzare.
Viviamo in una società che dovrebbe poter fare autocritica. Favorire la candidatura delle donne, senza imporsi quote rosa. PAGARE le proprie deputate, le consigliere per il lavoro che fanno. Le associazioni di volontariato sopperiscono enormemente ad un Welfare fallimentare del territorio. Finché la politica sceglierà di tagliare così allegramente lì dove vede commissioni di pari opportunità, o non favorirà i tavoli di confronto, i protocolli d’intesa, la rete tra l’associazionismo, o i servizi ricevuti da operatrici che per una MISERIA di rimborso spese, svolgono turni massacranti, nottate, emergenze. E’ questa stessa “violenza”, non prendiamoci in giro. Così come è una violenza nei propri confronti restare accanto ad un marito violento, per il bene dei propri figli, questo sistema non si accorge che sta agendo una violenza silenziosa, e passivizzante per le sue emanazioni e sui suoi cittadini che non ricevono servizi dovuti. Seguendo la metafora, La politica pare un padre violento, ma anche semplicemente arrogante ed approfittatore, che tiene sotto scacco una moglie (il welfare, i servizi) resa inabile a svolgere il proprio ruolo di accudimento di noi, che siamo i figli di questo sistema malato. Il rischio d’identificazione con l’aggressore (Ferenczi) è dietro l’angolo.
Per educare alla non violenza, bisogna poter riappropriarci del RISPETTO. Esercitiamolo ma soprattutto pretendiamolo! Restituiamo dignità a noi stessi e ai lavoratori del settore. Altrimenti il rischio di creare un’incongruenza tra contenuto e contenitore è dietro l’angolo. Voi pensate l’assurdità di creare centri antiviolenza, dove le operatici per prime vengano sfruttate da un sistema violento che le paga poco e le costringe ad operare in condizioni precarie. Non si può trarre in inganno il nostro inconscio. Alcune cose vanno risolte dentro di noi, per poterle testimoniare e tramandare.
Chiedere lo stop della violenza di genere, è un po’ come chiedere la pace nel mondo. C’è talmente tanto da fare, che conviene che ognuno si rimbocchi le maniche e faccia il suo piccolo. Guardando al proprio conflitto interiore, e decidendo di regalarsi la pace per se, e in alcune piccole cose su cui ha potere d’intervenire. Le grandi rivoluzioni possono partire dai piccoli gesti. Soprattutto se poi li facciamo risuonare in GRUPPO, in una rete, che diventi matrice di cambiamento.
Dott. Umberto Rotundo